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Riassunto del webinar Ufficio stampa e reputazione in tempo di crisi tenuto per noi da Marino Pessina dell’agenzia di comunicazione Eo Ipso.
L’importanza crescente di ufficio stampa e reputazione in tempo di crisi
Per poterci capire, abbiamo bisogno di darci un terreno comune di riferimento, perché quando si parla di media, di mass media e di informazioni si tende a metterci dentro di tutto, persino i social network, che prima di questa crisi da Coronavirus erano indicati dal 50% degli italiani come affidabili per la diffusione delle informazioni.
In realtà, con quello che è successo negli ultimi mesi, cioè con le tante e troppe fake news che sono girate senza freni, ora solo il 16% degli italiani ritiene che i social network siano affidabili per la diffusione delle informazioni.
Oggi parliamo dei mezzi di informazione di massa intesi come testate giornalistiche, quindi la stampa, la radio, la televisione e le testate online. Cioè quelle in cui la comunicazione è mediata dal lavoro dei professionisti dell’informazione, i giornalisti, e che si caratterizza per essere una comunicazione cosiddetta “one to many”, cioè da uno che la fa (il giornalista, che la controlla, la verifica, la scrive) ai molti potenziali lettori o ascoltatori.
Quindi per quello che riguarda il nostro discorso di oggi, quando userò i termini mass media, oppure genericamente stampa, giornali, quotidiani, sono il perimetro al quale mi sto riferendo.
Per definire che i media abbiano un potere intrinseco basta ragionare sul fatto che pochi di noi possono ricordare un caso in cui si sono formati un’opinione o hanno ottenuto un’informazione importante senza i media. In altre parole, per citare la Scuola di sociologia di Chicago, “l’opinione pubblica poggia sulla base delle informazioni che il giornale fornisce”. O meglio ancora, come già nel 1963 spiegava Bernard Cohen, i giornali possono “non riuscire per la maggior parte del tempo nel dire alla gente cosa pensare”, ma sono “sorprendentemente in grado di dire ai propri lettori intorno a quali temi pensare qualcosa”.
Volente o nolente, quindi, ogni singola persona è portata ad includere o ad escludere dalle proprie conoscenze ciò che i media includono od escludono dal proprio contenuto, arrivando finanche a dare maggiore importanza a ciò a cui i media attribuiscono maggiore enfasi, sia che si tratti di un evento, di un problema, di una persona, di un’organizzazione o di un prodotto/servizio.
E tutto ciò a volte anche a discapito dell’effettivo svolgimento dei fatti: perché le derive nella comunicazione giornalistica ci sono state e ci sono tutt’oggi, ad ulteriore sostegno del fatto che i media giocano un ruolo fondamentale per definire un fatto, potendolo anche far recepire un po’ diversamente da come si è svolto. Ma questa è un’altra storia.
Reputazione aziendale: i media che parlano di voi
Torniamo a noi, con una frase che ognuno di noi ha detto o sentito almeno una volta nella vita: “È vero perché l’ho letto sul giornale (…oppure l’ho sentito alla televisione o alla radio)”. È tutta qui, in questa frase che ognuno di noi ha pronunciato con convinzione decine di volte nella vita, la forza dei media. Un potere che non ha nessun’altra forma di comunicazione e che deriva dall’autorevolezza conquistata nel tempo e confermata quotidianamente – pur tra qualche sbavatura – per la qualità dell’informazione controllata e verificata che i media offrono a lettori ed ascoltatori e per la capacità di analizzare gli eventi e di contestualizzarli.
Quindi, per riassumere, se diamo per assodato che l’immagine che un individuo ha di un’azienda influenza in maniera determinante le sue decisioni su di essa – sia che l’individuo sia un consumatore, un investitore, un operatore finanziario o un dipendente/collaboratore – e che i media influenzano pesantemente una delle risorse intangibili più importanti e a più lungo ritorno per un’azienda, cioè la reputazione, è ovvio che per un’impresa è importante che i media parlino di lei. Possibilmente bene.
Vi faccio un esempio veloce: in questi due mesi, a seguito del lockdown, si stima che a livello nazionale siano nati circa 150 progetti di portali e app, tra quelli solo di livello locale e i circuiti nazionali, per far incontrare i consumatori con i negozi che consegnano a domicilio.
Si tratta di un servizio utilissimo, che si è rivelato addirittura indispensabile all’inizio dell’emergenza, quando non c’erano certezze su quali negozi fossero veramente aperti e avessero attivato il servizio di consegna a casa. Mediamente, ogni portale presenta circa 250 negozi, e questo significa che stiamo parlando di una forbice tra i 50 e i 500 negozi.
Decisamente fuori media e fuori scala è andato un progetto che ha puntato sulla comunicazione per costruirsi una reputazione prima ancora di far partire il passaparola. Si tratta di iorestoacasa.delivery, che tra il 25 marzo e il 23 aprile, quindi in meno di un mese, ha collezionato 175 passaggi su stampa, radio, televisione e testate on line e ha usato la rassegna stampa generata per promuoversi, ovviamente mettendo in vetrina i media più conosciuti e riconosciuti, come le radio, le tv, i quotidiani e i magazine.
Risultato? Rispetto alla media di 250 negozi per portale, iorestoacasa.delivery ha fino ad oggi messo in rete 4.709 negozi in tutta italia. Si tratta di un risultato per il quale la comunicazione veicolata dai media ha dato un pesantissimo contribuito, attribuendo a iorestoacasa.delivery una reputazione di affidabilità e di serietà che ha convinto 4.709 negozianti ad utilizzare questo (o, forse, anche questo) portale per raggiungere i propri clienti. E a oggi oltre 300 mila famiglie hanno acquistato dai negozi presenti su questo portale.
Tutto questo cosa significa? Che abbiamo lavorato bene come ufficio stampa? Sì, ma il punto non è questo. Il punto è che di iorestoacasa.delivery i media hanno parlato tanto, mentre degli altri 150 progetti nati nello stesso periodo, i media, di quelli che ne hanno parlato, ne hanno parlato di meno. E, quindi, non gli hanno fornito reputazione e conoscenza. La conseguenza è nei numeri: iorestoacasa.delivery ha quasi 5mila negozianti iscritti, gli altri portali, nel migliore dei casi si sono fermati a 500 clienti.
Ed eccoci al primo motivo per cui un’azienda ha – o dovrebbe avere – piacere che i media parlino di lei. Per una “banale” questione di costi e profitti legati all’audience: discorso di marketing che vale tanto per le aziende quanto per chiunque è alla ricerca della notorietà mediatica.
Due, infatti, sono le classi dell’audience: quella primaria e quella secondaria. La primaria è data dall’utente, dal cliente o dal pubblico che utilizza o compra un determinato prodotto/servizio o prende parte ad un certo evento e da quelli che ne sentono il racconto dei partecipanti e decidono di credervi (almeno in parte). La secondaria, invece, è costituita da coloro che, pur non essendo direttamente coinvolti, ne vengono a conoscenza grazie ai media che se ne occupano. E l’audience secondaria, per la forte capacità di diffusione dei media (la potremmo chiamare “effetto risonanza”), è molto più ampia di quella primaria.
Infatti, fateci caso, quando l’evento, il prodotto, il servizio non riesce ad attirare l’attenzione dei media – cioè non riesce a diventare notizia -, l’impresa è indotta e costretta ad affiancare una campagna pubblicitaria per sopperire a questa lacuna e ad ampliare la fascia di pubblico effettivamente raggiunta. Senza con questo, ovviamente, voler dire che la copertura mediatica può prendere il posto della pubblicità. O viceversa.
Pubblicità e notizie hanno entrambi a che fare con la comunicazione, aziendale e non, ma con ruoli distinti e ritorni diversi, soprattutto dal punto di vista della reputazione. Come ancora una volta diverso è il “passaparola” o “buzz” che dir si voglia.
Il secondo motivo per cui un’azienda ha – o dovrebbe avere – piacere che i media parlino di lei, ha a che vedere con la ricerca della visibilità mediatica e ormai è a tutti chiaro che fare qualcosa e non comunicarlo equivale a non averlo fatto. In altre parole, equivale a essere invisibile.
Produrre un bene di elevata qualità può non significare nulla, se ciò non viene percepito adeguatamente dal potenziale acquirente: e se per le informazioni di base sono spesso più che sufficienti le altre forme di comunicazione, per trasformare quel bene in un prodotto di moda è necessario che i media ne parlino, dandogli quel valore in più che diventa una delle principali risorse intangibili dell’azienda.
Ma come si può tentare di far sì che i media parlino bene di noi? Attenzione, ho detto parlino bene. Perché l’esperienza che molte aziende hanno con i media, è che i giornali non parlano mai di loro, tranne quando qualcosa va male o quando proprio non vorrebbero che di quella cosa si parlasse.
A chi mi chiede perché, rispondo sempre che i media parlano di tutto tranne di quello che siete intimamente convinti che di voi dovrebbe interessare ai media. Da un punto di vista logico il fatto è che i media e le aziende hanno interessi divergenti: i primi, infatti, per le loro notizie cercano elementi di straordinarietà, discontinuità e eccezionalità, mentre le aziende hanno interesse a comunicare situazioni di normalità, continuità e stabilità.
Per fare degli esempi in campo aziendale, diciamo che un fallimento o un alto numero di licenziamenti è una notizia, perché si presuppone che sia un fatto straordinario e improbabile, mentre il buon andamento dell’azienda non è una notizia, perché è considerato un fatto “normale” dai giornalisti (ma imprenditori e manager sanno bene che fatica si fa a far andar bene un’azienda).
Invece, in piena crisi come quella che stiamo vivendo, l’azienda che va bene o che si riconverte diventa una notizia, la chiusura di un’altra viene considerato un episodio più “normale” dai giornalisti. Che, appunto, cercano in prima battuta tutto quello che non è normalità. Per questo ufficio stampa e reputazione in tempo di crisi sono importanti.
Se prendete Il Corriere della Sera, La Repubblica o qualunque quotidiano di oggi, se li contate ci troverete attorno ai 400 titoli (cioè notizie, tra servizi, brevi, inchieste, articoli, interviste e commenti). Ciò vuol dire che ieri sono arrivati in redazione almeno 4.000 fatti, di cui ne sono stati presi in considerazione più o meno 1.000 per poter diventare notizie e che, dalla mattina alla notte di ieri, sono stati abbozzati o scritti almeno 500 pezzi, di cui 100 sono stati buttati, normalmente perché giudicati meno importanti o superati dagli avvenimenti che sono accaduti tra la mattina e la sera di ieri.
In altre parole: è soltanto confrontando il numero dei fatti che diventano notizie e il mare magnum degli avvenimenti, se non infinito almeno indefinito nelle sue dimensioni, che si possono immaginare i meccanismi che regolano l’informazione e i suoi criteri selettivi.
Criteri oggettivi e soggettivi per la pubblicazione di una notizia
Una minima parte di quanto accade si può leggere su un giornale, vedere alla TV o ascoltare in radio, un po’ di più lo si trova su un sito di informazione (su internet lo spazio è meno rigido), ma il resto, ovvero la gran parte dei fatti, rimane escluso dai giochi, relegato alla condizione di avvenimento, di accadimento non promosso a notizia.
Semplificando, ma molto semplificando, le ragioni dell’esclusione sono di due tipi: oggettive e soggettive.
Le prime, quelle oggettive, hanno a che fare con la competenza territoriale di ogni singolo media (le decisioni della regione Sicilia occuperanno le pagine della Gazzetta del Mezzogiorno, ma non ce ne sarà una riga sul Giornale Brescia), con la natura del giornale (se si occupa prevalentemente di economica, politica, sport, moda, e così via) e con la sua impostazione editoriale (cioè a chi vuole parlare l’editore e perché).
Le ragioni soggettive dell’esclusione, invece, hanno a che fare con la valutazione dell’importanza del fatto o dell’avvenimento (per parlare alle aziende, del prodotto o del servizio) da parte di chi deve trasformarlo in notizia, ovvero il giornalista. Del resto, ricordate all’inizio, vi ho detto che qui siamo nel campo della comunicazione one to many: uno che la fa, gli altri che la ricevono.
Il giornalista decide cosa pubblicare
Così veniamo al vero segreto di come funziona la comunicazione nei media. In questo mondo, quello dei media, c’è un unico giudice: il giornalista.
Vujadin Boskov, ai tempi allenatore della Sampdoria campione d’Italia, metteva spesso fine ad ogni discussione dicendo: «Rigore è quando arbitro fischia». Tutto il resto, cioè, non conta: sono recriminazioni inutili. Come inutile è stabilire se e chi ha torto o ha ragione. Fatto ovviamente salvo il caso dell’illecito: ma non è questo il punto.
Il punto è che il realismo spietato di Boskov intorno all’assegnazione del calcio di rigore sottolinea le leggi che sono proprie dell’informazione giornalistica: è l’arbitro, ossia chi giudica, a stabilire l’oggettività dei fatti, prima e a volte a prescindere dall’oggettività dell’accaduto. Se quindi il fallo, per l’arbitrarietà dei fischietti, non genera in automatico il rigore e, di contro, un intervento regolare può essere sanzionato con il penalty, il fatto si presenta come una potenziale notizia in attesa di giudizio, quello insindacabile del giornalista di turno.
Parafrasando Boskov diciamo quindi, e non certo per primi, che “notizia è quando un media pubblica”. Tutto il resto è un fatto, un evento. Eclatante o meno, condiviso o meno, magari vissuto in diretta da 100mila o più persone, ma pur sempre e solo un fatto rimane. Non è una notizia. O, meglio: non è diventato una notizia.
E a questo punto spesso partono le recriminazioni (inutili), gli attacchi (ancor più inutili) a giornali e redazioni “incapaci di comprendere l’importanza delle cose”, le rappresaglie (fallaci) sotto forma di paventati tagli ai budget pubblicitari, le telefonate (9 volte su 10 controproducenti) per tentare di “orientare” il giornalista, la richiesta di spiegazioni ai propri collaboratori, e potremmo continuare all’infinito.
Non serve a nulla. L’unico modo per entrare in contatto con i media è quello di dimenticarsi le proprie regole aziendali e giocare secondo le regole della comunicazione verso i media. Anzi, la regola: non è sempre la sostanza del fatto o la sua rilevanza a fare la notizia, ma il fatto che questo sia percepito come tale dall’unico arbitro che può decidere di portarlo a conoscenza dei lettori o degli ascoltatori. E normalmente il giornalista, che è prima di tutto è deontologicamente portatore di interessi collettivi, è interessato ai fatti che rispondono alla definizione classica di notizia. E notizia è qualcosa che la gente è interessata a conoscere e non conosceva prima, ma chi definisce “cosa” la gente sia interessata a conoscere è solo il giornalista.
Lavoro dell’ufficio stampa e reputazione in tempo di crisi
E qui entra in gioco l’ufficio stampa che, se sa fare il suo lavoro, ha lo stesso occhio del giornalista e, quindi, può aiutare l’azienda o l’organizzazione che hanno bisogno di comunicare a cogliere dove si nasconde la notizia.
Dico dove si nasconde, perché i media parlano di tutto tranne di quello che siete intimamente convinti che di voi dovrebbe interessare ai media. Spesso l’azienda scopre che lo spunto colto dall’ufficio stampa (e, quindi, potenzialmente interessante anche per il giornalista che dovrà decidere se pubblicare o meno) si nasconde in ciò che l’azienda ritiene pratica quotidiana e a cui tende a non dare importanza da un punto di vista comunicativo.
Ed oltre ad aiutare ad identificare cosa comunicare, l’ufficio stampa si occupa di comunicare con i media e di farlo nel rispetto delle regole del gioco che, come abbiamo visto, possono solo essere quelle del cosiddetto circo mediatico.
Detto che io penso che chi vuole comunicare con i media faccia meglio a farsi affiancare da un ufficio stampa, il senso di questo webinar è di aiutarvi anche se volete fare il fai-da-te. Così, ecco alcune regole da seguire. E, perdonate la presunzione, le regole sono regole. Sono già scritte. Preesistono a voi e a me. E non si possono cambiare.
Il rapporto con il giornalista
Innanzitutto rapporto paritetico. Nessuna sudditanza, paura, supplica o lusinga. Il giornalista fa il suo lavoro, tu il tuo. Nessuno è più importante dell’altro. E i ruoli sono chiari: tu devi presentargli il tuo fatto, con tutte le unità informative al posto giusto, ma senza inondarlo di informazioni. Lui deve decidere se trasformare quel fatto in notizia.
Poi, nel caso ci sia o stia iniziando un rapporto amicale, mai far leva sull’amicizia per ottenere un favore connesso alla pubblicazione o alla censura di una notizia.
Mai affidarsi agli “off the record”, perché una volta fiutata la pista il giornalista troverà quasi sempre il modo di farsela raccontare da qualcun altro, e scatterà la pubblicazione. E ciò significa che la confidenza fatta al giornalista non è mai un pettegolezzo casuale, ma una chiara forma di comunicazione.
Seguire gli orari delle redazioni, dove si inizia tardi la mattina e si finisce ben oltre l’ora di cena. Quindi un ufficio stampa non può aprire alle 8 e chiudere alle 17,30: non c’è nulla di più irritante per un giornalista che sta chiedendo un’informazione attorno alle 18 che lo scoprire che l’ufficio del comunicatore è chiuso o il sentirsi dire che “nell’azienda del mio cliente a quest’ora non c’è più nessuno che possa rispondere alle domande.
Gli strumenti per relazionarsi con i giornalisti non possono essere quelli commerciali o di marketing, ma devono essere semplici e facili strumenti di lavoro. La cartella stampa non ha bisogno né di cartoncini patinati né di foto da brochure, ma di semplice carta da fotocopia su cui sia anche possibile prendere appunti. I testi, cioè i comunicati stampa, che non è necessario mettere sulla carta intestata dell’azienda, devono essere caratterizzati da informazioni chiare e dalla presenza di dati numerici, il tutto organizzato secondo la regola delle “5W” (cioè con le classiche informazioni del notiziario giornalistico: Who/Chi? What/Che cosa? When/Quando? Where/Dove? Why/Perché?).
La conferenza stampa non è né un convegno né un incontro aperto a tutti, bensì un importante (deve essere importante, altrimenti perché convocarla? Basta un comunicato) faccia a faccia tra giornalisti e azienda, con l’ufficio stampa a far da presentatore/moderatore e l’azienda rappresentata da chi parla (non più di due) e, al massimo, da un paio di altre persone.
Da ultimo: nessun regalo. Non serve e deontologicamente il giornalista è tenuto a non prenderlo. Quindi è controproducente e può essere interpretato come un tentativo di corruzione. Se invece è un simbolo/gadget di poco valore legato alla produzione della vostra azienda, o la prova “una tantum” della qualità del vostro prodotto/servizio, potrebbe persino essere utile e gradito.
Come si misura l’efficacia del lavoro di un ufficio stampa sulla reputazione in tempo di crisi?
Un metodo interessante sarebbe effettuare un’indagine sulla reputazione dell’azienda prima di attivare un ufficio stampa e a sei mesi o a un anno dall’inizio del suo operato: ma è costoso e necessita di tenere in conto troppe variabili. Quindi, a ben vedere, l’unico metro di valutazione dell’attività di un ufficio stampa, è la rassegna stampa che produce.
Da un punto di vista aziendale, due sono i gradi di giudizio: soggettivo, ovvero la soddisfazione del management rispetto alla quantità e alla qualità delle uscite sui media; oggettivo, con un calcolo del Roi (return on investment) attraverso la valorizzazione della rassegna stampa. Un servizio, quest’ultimo, che viene offerto da società specializzate e che ai giornalisti proprio non piace, perché detestano che il loro lavoro sia giudicato con un indice nato per le campagne pubblicitarie.
Quello che va ricordato e tenuto ben presente se si vuole partire con un’attività di ufficio stampa è il fatto che la pubblicazione di una notizia è, all’interno di regole date, una decisione assolutamente soggettiva (abbiamo detto, come quella di ogni arbitro).
Questo è un fatto che io sperimento quotidianamente. Così non capita praticamente mai che tutti pubblichino la stessa notizia. A volte la riprendono 10/15 testate, altre volte molte di più. A volte si finisce in televisione o in radio, spesso la televisione e la radio non riprendono le nostre notizie. E a volte arriviamo ad avere una rassegna stampa che stupisce anche noi per la quantità delle pubblicazioni ottenute, come il caso dei 175 articoli in meno di un mese per iorestoacasa.delivery.
La ragione della differenza nei risultati? Sta esclusivamente nell’arbitro, nella soggettività soggettiva del giornalista. E la soggettività dell’arbitro nega la possibilità che tanto piacerebbe a ogni azienda, cioè ingegnerizzare un processo di ufficio stampa per poter approdare a una procedura da cui discenda un risultato certo.
Eccovi il video integrale del webinar: